Le lettere dal fronte di Giulio Müller

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CADUTO NELLA PRIMA GUERRA PER L’INDIPENDENZA ITALIANA NEL 1848

 

Proemio. Nel passare in rassegna e in esame una farragine di carte diverse, lasciate dalle ultime generazioni precedenti della nostra famiglia, m’è toccata la buona e preziosa ventura di rinvenire, tra le tante, anzi le più, riferentisi al fortunato periodo commerciale dell’antica e accreditata Ditta cotoniera, un fascicoletto di lettere familiari dello zio paterno Giulio, morto a ventisei anni, nel 1848, sul campo di battaglia, combattendo volontario nella prima guerra dell’indipendenza italiana.

Sono dieci lettere, da lui scritte, ad eccezione di una sola, al fratello Carlo, nel breve ed importante periodo di tempo che corse dalla vigilia del suo arruolamento alla vigilia della morte gloriosa. Lettere semplici e alla buona, buttate giù affrettatamente, nel disagio e nel tumulto del campo, durante la breve sosta affannosa tra una marcia forzata e un combattimento. Lettere, che nondimeno rispecchiano e ritraggono al vivo l’animo dello scrivente, coi suoi baldi propositi; con la magnanima incuranza del pericolo e della vita; coi fervidi entusiasmi per la santa causa ch’era venuto a propugnare; con le impazienze generose del combattente, nei giudizi ristretti sulla condotta della guerra; con l’assiduo desiderio e il ricordo tenero e accorato della famiglia lontana.

Di questa eletta figura, formatasi alla scuola del sacrificio e dei pericoli di guerra liberamente affrontati, santificata dall’olocausto della vita per un nobile ideale, mi è parsa opera non immeritevole né discara che un congiunto del sangue si studiasse, con pia cura affettuosa, di ritrarne e rinfrescarne i lineamenti non conosciuti, o prossimi a svanire nella lontananza del tempo e delle cose, riportando, in quella parte che parve più opportuna, riassumendo e commentando le lettere menzionate, che del caduto e dell’ultimo scorcio eroico di sua vita rimangono la sola sacra reliquia e la superstite testimonianza fedele.

C’è da rimpiangere che il materiale messo da un caso fortunato a nostra disposizione si presenti troppo scarso in riguardo e al soggetto e al nostro desiderio. Noi possediamo solo le lettere scritte da Giulio alla famiglia; poche, e si può dubitare, non tutte. Quelle della famiglia a lui, e segnatamente quelle del fratello Carlo, le quali vediamo menzionate nelle lettere del nostro volontario con affettuoso compiacimento, non ci sono rimaste, essendo andate perdute, nella tragica morte di lui, con quanto gli apparteneva e con la stessa povera salma. Né, disgraziatamente, alla scarsezza e alle lacune delle notizie fornite dai documenti superstiti potrebbe supplire ora – e, si può pensare, in quanta parte – l’informazione preziosa attinta dalla viva voce e dalla testimonianza contemporanea dei familiari, ormai tutti, nel corso di quasi tre quarti d’un secolo, discesi nel silenzio impenetrabile della tomba.

Ma quel che rimane, per quanto scarso e inadeguato, basterà tuttavia a rievocare dinanzi agli occhi nostri – che, in questi giorni appunto, dopo aspra guerra vittoriosa, salutarono compiuto il sogno così a lungo vagheggiato, e perseguito a prezzo di tanti dolori e tanto sangue, di una patria libera e riunita sino ai suoi confini naturali – e far rivivere la cara e nobile figura di chi, per la bellezza e la santità dello stesso ideale, che in quei lontani giorni fortunosi parve oscurarsi per sempre, cadde sperando nell’avvenire.

E di lui mi sia concesso di premettere qui, come a titolo di presentazione, qualche breve e succinto cenno biografico.

Nacque Giulio a Intra, il 23 aprile 1822, da Maurizio Müller, venuto dalla vicina Svizzera per ragione di commercio, e da Elisabetta Isorni, appartenente a vecchia famiglia intrese. Fu il penultimo di figliuolanza assai numerosa. Avviato nella carriera ecclesiastica, non vi durò a lungo; ma giovinetto ancora, lasciò il seminario e la veste talare, forse per indole indipendente e precocemente appassionata, che mal tollerava la costrizione e il giogo della disciplina e dell’astinenza volute da quello stato. E sarà stato bene così, se la vocazione mancava: meglio assai un prete di meno, che un cattivo prete di più. Dei suoi studi e compagni di seminario, anche dopo gettata la veste alle ortiche, Giulio però serbava buona e fedele memoria; e mio padre ci raccontava, non senza compiacimento divertito, che più d’un volta era toccato al nostro pretino rimasto in erba il compito curioso di mettere in carta le prediche a un suo compagno che, divenuto parroco, non si mostrava molto forte nell’oratoria sacra, ma ricorreva volentieri, per l’istruzione edificante del proprio gregge, all’erudizione catechistica e ai fiori rettorici dell’antico suo collega.

Ma, stabilitosi a casa e avviatosi, bene o male, al commercio, il giovanotto, nel bollore delle passioni insorgenti e nella scapataggine dell’età ardente e inesperta, si diede a correre la cavallina e menar vita discola e dissipata, incorrendo ripetutamente nelle ire e nei fulmini della vigile severità paterna. Questo periodo disgraziatissimo della vita di Giulio, periodo alternato di gravi errori e di pentimenti sinceri e accorati, che non impedivano al colpevole perdonato di tornare, poco dopo, alle scappate di prima, getta, non oso dire, una macchia (lavata, ad ogni modo, generosamente nel sangue del sacrificio eroico), ma un’ombra incresciosa sulla schietta figura di lui. E si può credere che il penoso contrasto col padre venerato e, di riverbero, con la famiglia amatissima, il profondo malcontento di se stesso e di una condotta incorreggibilmente sregolata, la viva aspirazione e il sincero proposito di farla finita con un passato di cui si vergognava senza sapersene svincolare, di riscattarne le debolezze e gli errori, di riconquistare la stima di sé, del padre, e degli altri, si può credere, dico, che questo tumulto di sentimenti diversi e angosciosi non sia rimasto estraneo ai motivi che valsero a determinare nel giovane generoso la grave ed eroica risoluzione di consacrare volontariamente se stesso, la balda giovinezza, la vita irrequieta ed esuberante alla difesa di un nobilissimo ideale, di una causa giusta e santa.

Comunque sia, appena che dal piccolo Piemonte, messosi arditamente a capo delle speranze e insurrezioni italiane contro la formidabile nemica secolare, venne dichiarata guerra all’Austria, troviamo il nostro giovane accorso a Torino e affaccendato nella pratica del suo arruolamento, come volontario, nelle file dell’esercito piemontese. E il caso suo – per ragione di seri ostacoli particolari, che si avrà occasione di veder tra poco accennati da Giulio stesso, impensierito e imbarazzato, ma non perduto di speranze e di coraggio, nelle sue prime lettere – non si presentava, invero, dei più semplici e facili. Ma è da credere che il nostro aspirante, il quale non domandava nulla per sé, ma offriva spontaneamente quanto aveva di più prezioso al mondo, la valida giovinezza e la vita, finisse, non però senza qualche ritardo pregiudizievole al suo avanzamento, col trionfare delle prime difficoltà oppostegli, che parevano invincibili, e col conseguire l’intento agognato di far parte dell’esercito regolare, se da una sua lettera del 7 di maggio lo vediamo entrato da qualche tempo in campagna e aver partecipato, come artigliere, agli importanti fatti d’arme di pochi giorni innanzi. Era il primo periodo della santa guerra; periodo, più fortunato per le nostre armi, e più arriso di liete e promettenti speranze per la causa nazionale. Di esso stiamo per sentire l’eco viva e personale nelle lettere di Giulio, che ne fu testimone e attore. A lui pertanto ci affrettiamo a cedere di buon grado e con desiderio deferente la parola, finendo, con qualche ultimo tratto fisico e morale, di presentare il protagonista del rapido e tragico dramma particolare, che andò accomunato e confuso con quello generale che travolse e spense, per allora, la fortuna e le speranze della patria italiana.

Era Giulio molto alto, e asciutto di membra; nella quale corporatura, nel pelo rosso, nei lineamenti risentiti e poco regolari, negli occhi infossati, in certa angolosità del corpo e delle movenze, conservava e rivelava, non attenuate dall’incrocio del materno sangue italiano, le vestigia dell’origine teutonica-svizzera. Fu di temperamento ardente e appassionato; di mente aperta e retta; ma di volontà che parve non salda né costante, se gli tolse di resistere agli allettamenti e agli impeti della passione, di piegarsi a un lavoro serio e sostenuto, di perseverare nei buoni propositi, suggeriti da pentimenti sinceri, caldi, ma labili. Fu però d’indole buona e affettuosa, amantissimo della famiglia, riverente al padre severo, entusiasta e tenero del fratello diletto Carlo. E l’epilogo eroico della sua vita, volontariamente spesa in servizio d’un ideale, sta a dimostrare come l’animo di lui fosse aperto a sentimenti nobilissimi, capace di risoluzioni alte e generose, di propositi arditi, sostenuti fino all’ultimo, attraverso fatiche, disagi e pericoli non comuni, con fortezza indomita e serena.

 

Dalle lettere di Giulio. A introduzione delle lettere di Giulio, credo non inopportuno di riportare da una del padre al figlio maggiore Carlo, instancabile avvocato del fratello minore, un periodo che riguarda quest’ultimo, e che dimostra su che piede, più di guerra che di pace, stesse il giovane con la famiglia, al tempo che precedette immediatamente il suo arruolamento, e come venisse interpretato il passo grave e decisivo della sua andata in quei giorni a Torino. Gioverà ad aggiungere un po’ di luce sullo stato complesso d’animo del nostro volontario e sui moventi vari, donde venne la grande risoluzione.

«Quanto al Giulio – scrive il 5 marzo del 1848 il padre sdegnato, sfogando col figlio intercessore – è irrevocabile la mia risoluzione, né occorre dirne i motivi a te, cui sono abbastanza noti; e molto mi dispiace che [Giulio] non sia ancora dove avrebbe dovuto essere già da tempo [probabilmente presso una Casa svizzera di commercio, dove era stato collocato]; che se pensasse di essere andato un’altra volta a Torino per divertimento, s’ingannerebbe ben bene». La irrevocabile risoluzione di papà contro Giulio, il quale, malgrado le tante promesse di ravvedimento mostravasi, per ripetuta esperienza, incorreggibile nella sua vita dissipata, si può supporre che fosse al bando dalla casa paterna; e i motivi del severo esilio dovevano essere ben noti a chi in favore del fratello discolo aveva già altre volte interceduto, non invano, presso il padre adirato. Al quale tuttavia toccò, quella volta, d’ingannarsi ben bene sul conto del povero giovane, che a Torino c’era andato, non per divertimento, no, ma per arruolarsi volontario sotto la bandiera di una causa santa non sua, in una milizia dura e perigliosa, che doveva per lui suggellarsi col sacrificio supremo della vita.

 

1. Lettera di Giulio al fratello Carlo, da Torino, 16 marzo 1848.(1)

Giulio – che in una precedente lettera alla famiglia aveva nascosto il suo divisamento d’arruolarsi, scrivendo d’aver trovato un impiego poco lungi da Torino, dove stava – in questa, al fratello Carlo, il quale era a parte del geloso secreto, scrive apertamente che nel termine di due o tre ore sperava d’essere arruolato come volontario nel Corpo d’artiglieria. Soggiunge che non aveva lasciato di prendere quelle maggiori informazioni che a lui era venuto fatto di raccogliere intorno alla possibilità di far carriera militare; e che, pur troppo, nel caso suo, la speranza di avanzamento era risultata assai minore di quanto s’era figurato e ripromesso; perché a lui, che non aveva compiuto il suo corso regolare di studi nei regi ginnasi, rimanendo chiusa la via, più rapida e più sicura, di raggiungere il grado di ufficiale coll’iscriversi, come allievo, all’Accademia militare, non restava altro mezzo d’avanzamento che salire faticosamente di grado in grado, cominciando dal più basso, «con anni e anni di servizio indefesso e irreprensibile»; di modo che a un povero volontario le spalline apparivano una meta lontana e poco meno che inaccessibile, riescivano un’impresa molto ma molto ardua e laboriosa. Non per questo il bravo giovanotto si sgomentava o si svogliava dalla deliberazione presa, impegnandosi a supplire, col raddoppiamento di buona volontà e di zelo, seguendo i saggi consigli del fratello, al difetto degli studi e di raccomandazioni personali.

Riapre la lettera per riferire al fratello l’esito del passo da lui fatto allora allora, per il suo arruolamento, presso quell’ufficio militare di Maggiorità: esito, pur troppo, quanto mai disastroso e sconsolante; perché, essendo stata messa innanzi la questione che l’aspirante, nato in Piemonte da padre suddito svizzero, non godeva dei diritti della cittadinanza sarda, si sente rispondere in faccia, chiaro e tondo, che in tal caso non può venire accettato! Senonché il povero respinto, al quale pende sul capo la minaccia di vedere d’un colpo crollare l’edificio del suo sogno vagheggiato, non si dà per vinto né si rassegna a perdere la sua cara speranza; ma insiste perché da casa gli si mandino con tutta sollecitudine gli attestati che devono aiutarlo a forzare la inesorabile porta di bronzo; intanto, scrive pieno d’incrollabile fiducia, cercherà in qual modo si possa superare il gravissimo ostacolo che gli contende l’attuazione del suo disegno.

 

2. Lettera di Giulio al fratello Carlo, da Chivasso, 21 marzo.

Gli scrive da Chivasso che avendo inteso come colà si arruolassero volontari senza che occorresse formalità di carte, v’era accorso per tentarvi il suo arruolamento; ma anche là s’era veduto respinto per mancanza di documenti; perciò torna a far viva istanza e a raccomandarsi caldamente al buon volere del fratello per il più sollecito invio delle sospirate carte indispensabili.

 

3. Lettera di Giulio alla sorella Rachele e al cognato, da Santa Giustina, 7 maggio.

Dal 21 marzo fino al 7 di maggio, nessuna lettera del nostro volontario. Ma in questo intervallo di tempo è da argomentare, con tutta certezza, che le carte sollecitate impazientemente da casa arrivassero al loro destinatario; e che Giulio, superata ogni difficoltà al riguardo, pervenisse finalmente all’intento agognato di arruolarsi volontario, in qualità d’artigliere, nell’esercito piemontese che, entrato in campagna contro l’Austria il 27 marzo 1848, era venuto ad affrontare il nemico fortemente trincerato nelle formidabili posizioni del quadrilatero veronese.(2)

Tanto rileviamo da una lettera che Giulio scrive al 7 maggio da Santa Giustina, presso Bussolengo, alla sorella Rachele, maritata a Torino, e al cognato, per informarli del combattimento al quale aveva preso parte il giorno innanzi, nell’assalto contro la piazza forte di Verona. «Ieri il nostro esercito diede simultaneamente l’assalto alle tre fortezze di Peschiera, Verona e Mantova. Di Mantova e Peschiera nulla vi posso dire, perché niuna nuova abbiamo ancora intorno all’esito delle armi italiane contro quelle due piazze forti. Noi, che abbiamo assalito Verona, la fortuna, in verità, non ci volle favorire; ma abbiamo avuto la peggio, nonostante il coraggio e il valore dimostrato dalla maggior parte dei nostri. Il danno però non fu tanto grande quanto poteva temersi, se da parte del nemico ci fosse stata maggior energia... Si batté la ritirata, e questa fu eseguita con tale ordine e pacatezza che il nemico non osò molestarci né con la cavalleria né con i bersaglieri». Qui accenna al morale alto dell’esercito piemontese, che usciva non avvilito dallo scacco toccatogli, ma conservava uno spirito di fierezza e di sicura fiducia in se stesso. «Noi però – osservava, non senza qualche eccesso generoso di confidente baldanza – non siamo per niente avviliti, ma sentiamo altamente di noi, avendo già esperimentato che, in fatto di valore, siamo molto superiori al nostro nemico». Poi aggiunge qualche particolare sullo scontro sfortunato. «Incontrato il nemico a circa due miglia da Verona, lo cacciammo fin sotto alle mura di questa città, dove, appiattatosi dietro i parapetti delle fortificazioni, e riparato dai muri delle case più avanzate, faceva un fuoco vivissimo e, vomitando da otto bocche di cannone palle e mitraglia, travagliava tremendamente la nostra fanteria, mentre noi (vedete infamia di posizione disgraziatissima!) non avevamo modo di servirci che di due soli cannoni alla volta, dei ventidue che avevano là pronti a far fuoco, mancandoci la possibilità di spostarne un maggior numero». Lo scacco, non c’era da nasconderselo, sia pure in grazia del vantaggio inestimabile di posizione goduto dal nemico, era grave; e il nostro bollente volontario, costretto ad ammetterlo, si consola pensando che il vincitore non ne potrà menare troppo allegro vanto, sentendosi ancora malconcio e afflitto della batosta, non meno grave, a lui toccata pochi giorni prima presso Pastrengo. «I Tedeschi però non hanno a fare le grasse risa per il danno arrecatoci il giorno di ieri; ché il 28 e 29 dello scorso mese, assaliti da noi nelle vicinanze di Bussolengo, vennero sloggiati di là e cacciati in vergognosa ritirata oltre Pastrengo, al di là dell’Adige, sul qual fiume fecero saltare il ponte, per mettersi al sicuro dal nostro inseguimento».(3)

Questo combattimento vittorioso era stato, per il nostro volontario, il battesimo del fuoco. Come era egli passato attraverso la prova formidabile e pericolosa? Come sopportava i disagi e gli strapazzi della vita di soldato in guerra? Sentiamolo da lui stesso: «Quanto a me, fui sempre al fuoco con freddezza tale da superare la mia aspettazione; la buona salute mi è sempre fida compagna: le marcie faticose, il sole che ti abbrustolisce, gli acquazzoni che ti inzuppano, il dormire all’aperto sul nudo terreno, le privazioni d’ogni genere non poterono aver presa sul mio stato fisico e morale, sempre sano, sempre allegro, sempre disposto e pronto a nuove fatiche». Una sola pena, abbiamo da lui, attrista e angustia il cuore il povero scrivente: la ricordanza dei suoi cari lontani, verso i quali torna, con assidua e mesta passione di desiderio e di rimpianto, il suo pensiero, aspirante a poter loro, col tempo e coi fatti, dimostrar quell’affetto che allora non gli era dato di esprimere che a sole parole: povere, ma sgorganti dal profondo del cuore. E il cuore, non sempre presago e profeta, non diceva al povero giovane che la famiglia da lui lasciata per seguire un ideale nobile e generoso non l’avrebbe più riveduta, e che i cari sogni e propositi di lui sarebbero stati, fra breve, violentemente troncati da quella stessa palla che era destinata a troncare, in sul fiore, la sua giovane vita!

 

4. Lettera del Dottor Lorenzo Restellini a Carlo Müller, da Quaderni (Villafranca di Verona), 13 maggio(4)

Pare che la famiglia, venuta in grave pensiero e angustia per la protratta mancanza di notizie sul conto del suo caro combattente, e priva d’altro mezzo sicuro di corrispondenza con lui, avesse pensato, per togliersi dalla crudele incertezza e dall’imbarazzo, di rivolgersi alla mediazione e all’opera volonterosa di un intrese, amico intimo di casa, il dottor Lorenzo Restellini, che in quel tempo al principio della sua carriera medica, in cui doveva acquistare fama di rara valentìa e di gran cuore, trovavasi allora addetto al corpo sanitario dell’esercito piemontese combattente.

Scrive il Restellini all’amico Carlo Müller che, subito al ricevere la lettera di lui, era corso dagli ufficiali d’artiglieria in cerca delle desiderate informazioni sul conto di Giulio, e aveva loro rimesso la lettera a questo destinata; a latore della quale era stato, senza por tempo in mezzo, spedito a Valeggio un messo apposta, con l’incarico d’informarsi e riferire dove stava e operava la II Posizione d’artiglieria alla quale Giulio apparteneva, e che ne era di lui; che in suo favore aveva procurato raccomandazioni presso il comando della Posizione; e che nutriva buona speranza di riuscire a rintracciarlo egli stesso in persona, avendo a trattenersi colà un po’ a lungo e restandogli tempo disponibile per una tale ricerca.

 

5. Lettera di Giulio al fratello Carlo da Bussolengo, 15 maggio.

La staffetta, spedita verso Valeggio alla ricerca di Giulio e delle sue nuove, indugiava, come rileviamo da quanto scriveva lo stesso Restellini, a far ritorno; e si capisce agevolmente; ché Giulio e la sua II Posizione trovavansi di stanza altrove, più a nord, presso Bussolengo. Peraltro, la lettera della famiglia era potuta, per la via straordinaria, pervenire fortunatamente a destinazione. Ma in quel frattempo, Giulio aveva scritto a casa una prima volta (benché la sua lettera, di cui è accenno nella susseguente, con tutta probabilità non arrivasse alla famiglia, mancando alla presente raccolta) e, due giorni dopo la lettera del Restellini, tornava a scrivere al prediletto fratello Carlo. Appare però anche da questa lettera che una interruzione e lacuna fuori dell’ordinario fosse intervenuta nella corrispondenza di lui: perché lo scrivente comincia con allegare a principal cagione del suo silenzio «la scarsità del tempo e la mancanza del necessario per scrivere». Poi passa a dar sfogo alla piena del suo cuore affettuoso e inquieto. Dice che, per aver nuove de’ suoi cari, egli sarebbe pronto a offrire in sacrificio la cosa più cara al mondo, e (particolare preso dalla dura realtà, che dipinge al vivo il tormento della sete nella vita di privazioni del combattente) darebbe per esse fino il refrigerio delle scarse gocce d’acqua alle quali anela il cannoniere dopo una lunga e faticosa giornata canicolare di continuo fuoco. Sollecita quindi dal fratello una delle sue buone lettere, che gli parli della mamma, dei fratelli, delle sorelle. In quanto al papà, che nel partire da casa egli aveva lasciato gravemente incollerito contro di lui, invoca dal fratello una parola di conforto; ché il pensiero del corruccio paterno gli è di continuo un peso, una spina al cuore. E «sarebbe ella – domanda angosciato il povero pentito – cosa umana ch’io morissi con questo triste pensiero nell’anima?» Un tal pensiero lo assedia, lo assilla, lo tormenta al punto di togliergli quella pace e tranquillità dell’animo, la quale non arrivano a turbare le intemperie, i disagi e i pericoli di quella vita allo sbaraglio e alle prese col nemico. Scrive che di salute sta benissimo. Il sole gli ha tutta abbrustolita e mutata la pelle del viso e delle mani, «non altrimenti della biscia che lascia la sua spoglia a primavera»; la pioggia lo ha più volte immollato da capo a piedi; il vento e il calor naturale del corpo gli hanno asciugati i panni addosso; con tutto questo, non il più piccolo accenno a quel dolore di denti che soleva tormentarlo a casa. E aggiunge: «Si mangia male, si dorme peggio, si fatica moltissimo; pure, se quell’idea non mi perseguitasse, sarei del tutto tranquillo». Il pensiero della meritata collera paterna, ecco la passione che turbava e affannava, al povero lontano, quel cuore che saldo e impavido aveva guardato più volte in faccia alla morte e sostenuto la vista di tanti orrori della strage! «Sono stato – esce a dire con legittima fierezza – quattro volte al fuoco, ho veduto tanto da far sgomento a cuori ben saldi; pure non ebbi ombra di paura». E torna all’accorato struggimento per le nuove de’ suoi cari, e per il perdono del padre: «Ti prego di nuovo, non mancare di scrivermi; pensa, mio caro Carlo, che può esser forse l’ultima volta che riceverò un tuo scritto»; dà al fratello l’incarico de’ suoi saluti affettuosi alla mamma, agli altri fratelli e alle sorelle, che nomina tutti ad uno a uno; né dimentica gli amici, poi il suo ultimo pensiero e addio è per il papà, presso il quale affida al fratello prediletto il pietoso ufficio, a lui non nuovo, di intercessore: «al papà presenta le mie proteste di sincero pentimento dei miei trascorsi, e intercedimi da lui, come altre volte hai fatto pietosamente, un intiero periodo». Addii appassionati, umili proteste di pentimento e accorata invocazione di perdono, che il cuore, quasi presago della fine non lontana, non si stanca di suggerire al povero giovane che, destinato a cadere tra breve sul campo di battaglia, lungi dai suoi, torna, con insistenza amorosa, agli addii, e anela a morire in pace con sé, con gli altri, e perdonato!

 

6. Lettera di Giulio al fratello Carlo da Bussolengo, 20 maggio.

Si mostra grato al fratello del suo memore affetto; dice che lo ricambia di tutto cuore a lui e agli altri della famiglia: «oh, tutti mi siete qui nel cuore!» S’impensierisce e s’angustia di rilevare come la lettera di Carlo non faccia punto parola a proposito di papà; un tale silenzio sarebbe voluto pensatamente? Sarebbe una reticenza pietosa del fratello che, non essendo in grado di riferire da parte di papà una buona parola, evita persino di toccare il doloroso argomento, e tace? Dunque lo sdegno di papà contro di lui e i suoi trascorsi persisteva implacabile? Dunque il perdono paterno, demeritato un tempo con le tante ricadute, ma rimeritato ora «col pentimento e colle lagrime», mostravasi restio a venire? «Per la tua affezione verso di me – supplica accorato – non scrivermi linea senza parlarmi di lui e del suo perdono: troppo mi è indispensabile perché viva tranquillo».

Aggiunge qualche particolare sull’andamento della guerra; e dalle parole ottimiste di lui traspare, con una confidente sicurezza nel buon successo delle armi piemontesi, un fervido amore di quell’Italia per la santa causa della quale era venuto volontario a combattere e stava per lasciare in sacrificio la vita. «Le cose nostre vanno bene. A Peschiera i nostri vantaggiano ogni giorno. Presa Peschiera, questo corpo d’armata che la tiene in assedio, si unirà al nostro per dare l’assalto a Verona. Le file dei nemici s’assottigliano ogni giorno per la grande quantità dei disertori. Viva l’Italia!».

 

7. Lettera di Giulio al fratello Carlo, da Bussolengo, 28 maggio.

Finalmente la lettera da Giulio a lungo invocata e sospirata, la lettera messaggiera di perdono e di pace, gli era tre giorni prima arrivata! E Giulio, rispondendo al fratello, non sa come esprimere in parole né contenere la piena del cuore traboccante di esultanza profonda e serena nel sentirsi liberato dall’incubo angoscioso di ricordanze amare, restituito all’affetto de’ suoi cari, e ammesso al perdono del padre. Piange di gratitudine e, dolendosi di non poter dimostrare per allora la sua riconoscenza fuorché a parole, affretta col desiderio il giorno ancora lontano, «se le palle nemiche non me lo contenderanno», che gli sia dato di confermarla con la bontà dei fatti e della condotta mutata. Protesta caldamente al fratello che i nobili sentimenti da questo espressi nella sua lettera non rimarranno, come semente caduta in campo sterile e ingrato, senza effetto salutare sul cuore fraterno, al quale l’affetto pio e gentile di Carlo aveva saputo trovare la via diritta e sicura.

Passa poi alle notizie della guerra, desiderate dal fratello, non senza avvertire di non trovarsi in caso di saperne egli stesso gran che su un tale argomento: «noi soldati – giustamente osserva – non sappiamo di guerra se non quanto cade sotto i nostri propri occhi, ed è operato da noi». E prosegue: «La nostra divisione è sempre accampata tra Peschiera e Verona, intercettando qualunque comunicazione tra queste due piazze forti del nemico; né ci moveremo dalle nostre posizioni prima della resa di Peschiera. Questa fortezza, dopo esser stata, per sei giorni e sei notti di fila, battuta dalle artiglierie dei nostri, ieri finalmente venne a trattative, ma sulle condizioni di queste non essendosi potuto trovare l’accordo d’ambo le parti, questa notte noi si ritornò all’assalto. E, a quanto si dice, i nostri si tengono certi di prenderla a forza in un non lungo periodo di tempo.(5) La notte del 26, i Tedeschi di Peschiera, profittando di un tempaccio indemoniato, fecero una sortita verso le dodici, credendosi, i gonzi, di sorprendere i nostri e impadronirsi delle nostre batterie; ma pagarono assai cara questa loro pretesa, lasciando sul terreno buon numero dei loro, vittime del mal calcolato assalto. Parimenti, noi qui, siamo, si può dire tutte le notti, molestati dalla guarnigione di Verona, la quale, con le sue sortite, ci capita addosso, anch’essa nella speranza di sorprenderci colle mani alla cintola; ma appena si accorge della nostra vigilanza, se la batte precipitosamente in ritirata, non senza lasciare qualche morto, o qualche prigioniero in mano nostra. La notte poi del 25, verso le tre, si sentì, proprio sotto le mura di Verona, una vivissima fucileria, che durò circa un’ora e mezzo: corre voce che una compagnia di soldati italiani al servizio dell’Austria abbia tentato di disertare; ma sorpresa dai tedeschi, sia stata costretta a sostenere un fuoco micidiale che la sterminò quasi tutta».

Venendo da ultimo a parlare di sé, incarica il fratello di ringraziare da parte sua gli amici della buona opinione che hanno di lui, e del voto che fanno, di vederlo presto «preso in onorevole considerazione»; dice che non è meno viva in lui l’ambizione di segnalarsi, di farsi onore; ma è indispensabile che se ne presenti un’occasione. «Se la mi capita, non me la lascio sfuggire per certo, e mi distinguerò». Si rammarica che, a detta de’ suoi superiori, sia arrivato tardi; se no, a quest’ora, avrebbe un grado. «Se la guerra però non finisce così presto, quale sono partito, certamente non voglio ritornare»: sognava l’animoso e ardente volontario di ritornare, a guerra finita, con le sue brave spalline, ben meritate!

 

8. Lettera di Giulio al fratello Carlo, da Sona, 18 giugno.

Si diffonde a dar notizie della guerra, facendosi eco d’un periodo assai agitato e faticoso di marcie incessanti, ora in un senso ora in un altro: da quindici giorni, scrive, non ha avuto un momento di tempo libero e a sua disposizione per farsi vivo a casa. Dice che la sua divisione non s’è trovata alla battaglia di Goito nelle giornate del 29 e 30 di maggio;(6) ma che la notte del 2 giugno, di concerto con altra divisione, aveva marciato alla volta di Mantova per tagliare la ritirata all’esercito austriaco che aveva assalito i nostri a Goito;(7) le due divisioni inseguitrici erano però arrivate a poca distanza da quella piazza forte senza nemmeno vedere il nemico, che aveva marciato precipitosamente dì e notte per mettersi in salvo, e c’era riuscito. Di là, erano retrocedute a Peschiera, per passare a Rivoli, all’intento di sloggiare da questo presidio gli Austriaci i quali s’erano affrettati a sgombrarlo, senza sparo di fucile, protetti nella loro ritirata dalle acque ingrossate dell’Adige. Da Rivoli la divisione era tornata a Peschiera, da Peschiera sotto Verona, dove il nemico, dopo avere di notte tempo, con un’abile mossa aggirante, minacciato di prendere i nostri alle spalle, tanto da obbligarli prudentemente a retrocedere,(8) s’era da ultimo riparato in quella piazza forte. Una serie interminabile di marcie e contromarcie, eseguite con un caldo opprimente, con poca o nessuna apparenza di costrutto e d’effetto, sulla traccia di un nemico inafferrabile, rifuggente dal misurasi in campo aperto, e sempre pronto a trincerarsi dietro il riparo delle sue piazze forti, ecco tanto da esasperare e mandar sulle furie i nostri soldati, i quali – nota lo scrivente – altro « non agognato che il momento e l’ordine di un attacco contro qualsiasi delle fortezze che servono di rifugio e salvaguardia al nemico».

Finisce la lettera raccomandando al suo Carlo che, scrivendogli voglia usare una scrittura più fitta e più minuta: «che così la carta non ti mancherà, e io non resterò defraudato di quel poco o tanto di più che vorresti ancora scrivermi». Pretensione gentile, da innamorato.

 

9. Lettera di Giulio al fratello Carlo, da Sona, 30 giugno.

Se la lettera che precede, appare quasi esclusivamente dedicata all’argomento della guerra, che stava in cima a tutti i pensieri degli italiani, la presente, invece, è da Giulio tutta consacrata all’espressione di quanto gli commuove e agita il cuore, alla voce dei dolci affetti familiari, alla viva e ingenua ammirazione per il suo «amatissimo Carlo», ai nobili sensi di illimitata devozione, fedele e pronta fino al sacrificio della vita, verso «la bella Italia», di acceso e fervido entusiasmo per la santa causa dell’indipendenza di lei dallo straniero. Tra le lettere del piccolo e prezioso manipolo a noi rimasto appare la più estesa e la più grave, la più presaga dell’avvenire, la più ricca di sentimenti forti e soavi. All’affannosa preoccupazione delle marcie precipitose, incalzantisi senza tregua né respiro, è succeduto da qualche giorno un periodo di sosta e di calma, che concede quotidianamente varie ore di tempo disponibile; e Giulio, manco a dirlo, s’affretta a profittarne per diffondersi e indugiarsi in confidente e intimo colloquio col fratello prediletto. Questi, dotato di sentire squisito, d’ingegno eletto, non sprovveduto di coltura letteraria, sapeva esprimersi, anche nelle lettere familiari, con vivace genialità di sentimento e con garbo di forma. Il fratello non gliene nasconde tutta la sua devota compiacenza e ammirazione: «tu scrivi tanto bene, mio Carlo, che qualunque persona, anche affatto estranea all’argomento delle tue lettere, non potrebbe a meno di risentirne, leggendole, una vivissima soddisfazione, e l’attrattiva di una vera simpatia per chi le ha dettate». Di questo caro e intimo piacere, che gli viene dalle lettere del fratello, il povero lontano è avido, non mai sazio: vorrebbe che gli fosse ripetuto e rinnovato quanto più di sovente. «Se io avessi su di te quel diritto di gratitudine, che giustamente, in forza delle tante obbligazioni mie, tu puoi ripetere da me, ben vorrei comandarti di scrivermi spesso, ogni volta che ti fosse possibile». Dal canto suo, è tale il tumulto dei pensieri e dei sentimenti, i quali gli fervono dentro e fanno ressa alla penna, «che la testa mi diventa grossa grossa, e finisco con buttar giù una lettera tutta confusione e tutta stento, ben lontana da quella naturalezza di esposizione che tanto t’invidio».

Si compiace e si rallegra col fratello di saperlo sano, esente da quelle sue forti e pericolose malattie che negli anni scorsi lo avevano tanto travagliato. Passa poi ad esortarlo, con il papà, la mammina e gli altri di casa, che non stiano tanto in pensiero per lui a cagione dei pericoli ai quali sta esposto. E le parole del bravo giovane, nella loro semplicità eroica, suonano, alla vigilia del sacrificio supremo, austeramente alte e solenni. Questo, dice, serva ai suoi cari lontani di norma e di conforto: «che dal primo giorno che fui a vista del nemico, non una sola volta mi rincrebbe della mia posizione esposta; e pensando che, se mi tocca di morire, muoio martire della causa più giusta e più santa, la coscienza del pericolo, che in altra circostanza mi avrebbe certamente spaventato, ora mi è causa di piacevole orgoglio». E aggiunge il generoso: «Se ritornerò sano e salvo ancora tra voi, allorquando sentirò a parlare della guerra che fece libera la bella Italia, mi glorierò di poter dire: A quella guerra io pure ho preso parte e combattuto; che se il mio destino sarà il cadere sul campo onorato di battaglia, voi, miei cari, a vostra volta, direte: A quella guerra un mio figlio, un mio fratello, ha dato il suo sangue e la sua vita». Poi, quasi nel timore pudico d’aver fatto mostra di un sentimento così nobile e generoso, il modesto volontario s’affretta a dissimularne il pregio e il merito, dicendolo cosa comune e naturale al soldato. «Chi non conosce da vicino la vita del militare, naturalmente si meraviglia della freddezza, dell’indifferenza con cui egli pensa al pericolo della vita; ma pure non v’ha niente più naturale per un soldato». E ne attribuisce, a ragione, la causa e il merito all’influenza dell’ambiente elevato, alla scuola severa della disciplina e del dovere, all’efficacia della buona direzione e dell’esempio da parte dei capi.

Intanto, da più di quindici giorni, le truppe piemontesi si ritrovavano accampate in vista di Verona; e frementi dell’inazione a cui si vedevano costrette, anelavano e domandavano d’esser condotte all’assalto di quella piazza forte,(9) benché non ignorassero tutte le difficoltà e tutti i pericoli che aspettavano l’impresa, poco meno che disperata, di prendere a viva forza una fortezza così formidabilmente munita. «Là – esclama il generoso impaziente – si devono decidere le sorti d’Italia; e là, forse, è destinato che copioso sangue italiano lavi per sempre l’onta d’una così lunga schiavitù».(10)

L’ultima parte e gli ultimi pensieri della lunga lettera lo scrivente li dedica alla sua Intra e ai suoi cari. «Quando la prima volta mi scriverai, io vorrei, mio Carlo, che mi parlassi qualche poco della nostra Intra, della guardia civica, del Teatro e anche, come parmi d’averne, ogni tanto tempo, qualche diritto, dell’andamento dei vostri affari». Vuole esser informato, se il fratello a lui più vicino d’età, Giovanni Battista, da qualche anno addottorato in medicina, e avviato in paese nell’esercizio dell’arte salutare, «si vada acquistando già quel credito e quel buon nome che sono naturalmente dovuti ai suoi meriti». Finisce con pregare il fratello di chiedere per lui al papà «il permesso di dirigergli una lettera»: si vede che alla coscienza delicata e timida del figliuolo pentito il perdono paterno, pur largamente concesso, non era bastato a ridonare, insieme con la gioia profonda e riconoscente dell’affetto ricuperato, con la serena e sicura tranquillità del cuore tornato in pace, a ridonare, dico, la piena confidenza filiale, senza ombra di restrizione e di riserva, senza ritorno di dubbio e di timore.

 

10. Lettera di Giulio al Fratello Carlo, da Sona, 10 luglio.

Pare che i fervidi elogi di bello stile elargiti nella lettera precedente dal buon Giulio al suo Carlo avessero per effetto di spiacere e far ombra alla ritrosa modestia del fratello, il quale, ingegnandosi a metter acqua sul fuoco degli entusiasmi fraterni, sembra che esortasse il suo devoto ammiratore a lasciare da parte i complimenti e – trattandosi di lettere familiari, alla buona e senza pretesa, delle quali il maggiore pregio sta nella naturalezza semplice e disinvolta – a rifuggire da ogni ombra di costrizione, da ogni studio o sforzo di ricercatezza affettata. La lezione fraterna viene accolta con pronta docilità dal nostro Giulio, che promette d’astenersi scrupolosamente, nelle sue lettere d’allora in poi, dal fare altri complimenti letterari, benché non suggeriti da adulazione, ma sgorgati dal cuore. Protesta però che, in quante lettere ha scritte per l’addietro, ma non ebbe ad accorgersi d’esser preso da quell’impaccio misto a costrizione «che naturalmente tormenta colui, il quale vuol scrivere con affettazione». Del resto, egli ripone nell’assennato e indulgente giudizio del suo Carlo una tale confidenza che, gli venisse scritto ancora peggio di quel che scrive, non si sentirebbe punto tentato di mettere maggiore studio e ricercatezza nel suo stile letterario: la qual cosa però, osserva argutamente, con un buon senso condito qualche po’ di malizia, «non mi può togliere il desiderio di saper scriver meglio, e di ammirare chi meglio di me sa scrivere».

Poi dà una capatina nel tema obbligato della guerra. Gli pare ben ragionato quanto dal fratello gli si vien osservando intorno al metodo temporeggiatore di Carlo Alberto nel condurre la guerra; benché, a dir vero, non gli paiano privi di ogni buona ragione coloro che si lagnavano della lentezza con cui venivano trascinate le operazioni relative al nostro esercito.(11) «Che se Verona vorrà prendersi per fame, bisognerà che ne passino parecchi dei mesi, prima di ridurre quella piazza forte a capitolare»; il tempo, in guerra, è più che mai prezioso, e «l’esperienza oggigiorno c’insegna che un periodo, anche cortissimo, di tempo può esser fecondo di mutamenti straordinari, che mai non si sarebbero creduti o aspettati».

Sul conto suo particolare, confessa d’aver bisogno d’un po’ di denaro, anche per certe spese che gli occorrerà di fare in occasione della sua prossima nomina a caporale. C’è un sergente, che lo viene istruendo nella teoria e nella pratica riguardanti il maneggio della carabina; maneggio, da lui, volontario improvvisato, non potuto prima imparare a fondo; e, si sa, una ricompensa, sia pur tenue, è dovuta a chi ci mette fiato e fatica in servigio del prossimo. Poi aggiunge, con mirabile semplicità, degna di un eroe: «Mi era stata offerta dal capitano la carica di caporale furiere, ma fu da me ricusata per il motivo che, avendo quella carica, non avrei più potuto essere al fuoco contro il nemico». Povero giovane magnanimo e generoso, che si schermisce dall’accettare una carica offertagli dai superiori, per la sola ragione che è meno esposta, che gli impedirebbe di ritrovarsi in faccia al nemico e nella mischia; che è geloso del suo posto di combattente, della sua parte di pericoli e di gloria modesta, della sua ambizione di seguitare a porre a servigio della Patria adottiva il suo braccio, tutta la sua attività, nel campo più pericoloso, anche a prezzo del suo sangue e della sua vita!

Questa lettera memorabile del 10 luglio chiude ben degnamente la serie, troppo breve e scarsa, delle lettere di Giulio dal campo è, con tutta probabilità, l’ultima da lui scritta in vita. Il fato oramai incalzava, gli stava sopra: ancora pochi giorni, e per lui sarebbe sonata l’ora sacra del sacrificio, della morte sul campo. E con la vita oscura di lui, semplice soldato, stava per esser travolta e perire, senza apparente speranza probabile e vicina di risurrezione, la fortuna radiosa dell’Italia. Di questo epilogo infelicissimo della nostra guerra, che, principiata con sì lieti auspici e fondate speranze, parve portare in sé tanti elementi e tante promesse di sicura vittoria, mi sia lecito di riferire qualche cenno rapido e sommario, all’intento di ritrarre, nel quadro funesto della catastrofe generale, quali circostanze di tempo, di luogo, di eventi, accompagnarono la caduta del nostro umile eroe.

 

Epilogo. Carlo Alberto, forzato ad agire dalle impazienze delle truppe e delle popolazioni, dopo qualche tentativo fallito contro il nemico, disperando di riuscire a sloggiarlo dalle forti posizioni occupate davanti a Verona, si decide, il 13 luglio, con la diversione d’una gran parte delle sue truppe, a completare l’investimento e il blocco, già iniziati, di Mantova, a impadronirsi di Legnago, altra piazza forte del quadrilatero, e forzare per tal modo la linea dell’Adige sulla sinistra degli austriaci.

Con una tale decisione – che sconvolgeva profondamente senza necessità, i piani e la condotta della guerra; che con la diversione intempestiva di Mantova e di Legnago, veniva a prolungare smisuratamente la linea di fronte dell’armata piemontese, e a distrarre buon nerbo di truppe in faccia a un nemico già ben superiore di numero, solidamente e minacciosamente postato davanti a Verona – il capo supremo dell’esercito piemontese commise il più grave degli errori. Del quale il comandante austriaco, maresciallo Radetzky, non indugiò a trarre profitto, concependo il disegno di prendere risolutamente l’offensiva, finallora studiosamente evitata; di attaccare a fondo, col grosso delle forze raccolte a Verona, accresciute da recenti rinforzi venuti dal Tirolo, il centro avversario; sfondarlo; impadronirsi dei passaggi del Mincio e svolgersi alle spalle del blocco di Mantova.

Nella notte dal 22 al 23 di luglio, le colonne austriache si muovono all’assalto: la fronte d’attacco s’estende da Santa Giustina, per Sona e Sommacampagna, a Custoza. Queste posizioni vengono strappate ai nostri, dopo una serie simultanea di combattimenti accaniti, condotti dal nemico con forze soverchianti. A Sommacampagna, gli austriaci erano più di 12.000 uomini con 18 cannoni, contro 3.000 piemontesi e 4 cannoni; il combattimento, nonostante l’enorme disproporzione delle forze, era durato a lungo; e i nostri non avevan abbandonato la loro posizione se non quando, vedendosi minacciati nella retrovia, se n’erano ritirati lentamente e in buon ordine.

Il 24, Radetzky, proseguendo nel suo piano d’attacco, forza il passaggio del Mincio a Salionze; e la sua armata, impadronitasi di tutte le alture dominanti la riva destra del Mincio, si trova a cavaliere di questo fiume, tagliando in mezzo la linea dell’esercito piemontese.

Senonché nello stesso giorno, il generale Bava, con brigate condotte dal duca di Savoia e dal duca di Genova, assalendo furiosamente il nemico, lo scaccia dalle alture da Custoza a Sommacampagna, rioccupandole. Questo scacco inflitto agli Austriaci mette in allarme Radetzky; il quale, dubitando che l’armata piemontese tutta intiera s’avanzasse per tagliargli le comunicazioni con la piazza forte di Verona, s’affretta a richiamare le brigate che avevano passato il Mincio, ordina alla brigata Haynau, rimasta in Verona, di raggiungere il grosso dell’esercito che, mutando fronte, si raccoglie intorno a Valeggio, divenuto perno di conversione, e a Custoza, destinata a diventare chiave del campo di battaglia.

Il 25 luglio, giorno della battaglia di Custoza, i nostri attaccano animosamente il nemico; ma il numero strabocchevolmente soverchiante di questo,(12) la confusione e il disaccordo di ordini mal dati o mal intesi, rendono vano ogni valore delle nostre truppe combattenti che, costrette a ripiegare, si ritirano in buonissimo ordine, cedendo il terreno a palmo a palmo.

La battaglia di Custoza, perduta dai nostri con onore, decide sinistramente delle sorti d’Italia, dando al morale dell’esercito che stava in campo e combatteva per lei, un crollo irreparabile. Carlo Alberto, dopo aver chiesto e respinto un armistizio concesso dal nemico a condizioni troppo dure e umilianti, si vede forzato ad una ritirata generale che, cominciata nel pomeriggio del 27, prosegue il 29 e la notte dal 30 al 31, trascinandosi dietro, fino al riparo dell’Adda, l’avanzo, lo spettro avvilito e affamato dell’esercito piemontese. «C’etait osserva il più volte citato storico coscienzioso di quella infelice campagna un triste spectacle que celui de cette armée, si belle quelques jours auparavant, et aujourd’hui démoralisée, abattue, exténuée, mourant de faim au milieu des plus belles provinces de l’Italie! Car prosegue con indignazione dolente, lanciando la più grave e severa delle accuse in faccia all’Amministrazione militare dei viveri , il faut bien le dire, la faim fit plus de victimes et causa plus de désordres dans l’armée que le canon des Autrichiens: et la coupable négligence de l’administration des vivres eut la plus grande part à tous ces désastres».(13)

In uno dei combattimenti sanguinosi che terminarono alla rotta di Custoza, cadde Giulio Müller. Al generoso volontario toccò in sorte quella morte gloriosa sul campo di battaglia che, quasi in visione profetica, egli aveva contemplata, dirò di più, vagheggiata, con animo forte e sereno, nella sua lettera a casa di poche settimane prima, la quale può considerarsi il suo ultimo commiato e il suo testamento; su quel campo di battaglia, che egli, invitato ad altro ufficio, meno esposto e pericoloso, non aveva voluto disertare, ma aveva cercato con passione gelosa e fedele sino alla morte!

Il suo corpo andò confuso e perduto, in mezzo ai tanti altri, di commilitoni e di nemici, caduti su quelle alture aspramente contese, e finite in potere degli austriaci, in quella lotta suprema dove caddero per allora, e per molti anni, anche le speranze d’Italia.

In quale fatto d’armi particolare lasciasse Giulio la vita, ce lo dice la lapide, collocata dalla pietà memore e riconoscente dei nostri padri sotto al portico del pretorio cittadino, a perenne ricordanza dei numerosi caduti del circondario intrese, che diedero la loro vita nelle varie guerre per l’indipendenza nazionale(14) Questa marmorea pagina gloriosa di storia locale, che d’ogni singolo caduto ha cura di registrare l’anno, l’occasione e il luogo della morte eroica, segna per Giulio Müller, con la guerra del 1848, il luogo di Sommacampagna. Appare più che probabile che quest’ultima indicazione preziosa fosse fornita dalla famiglia del caduto, e a lei provenisse dalla fonte ufficiale dell’autorità militare, sebbene, a dir vero, nessuna comunicazione di un tal genere io abbia avuto la fortuna di rinvenire tra le carte riguardanti il defunto.

Da Sona – ultima stanza di Giulio, donde vediamo datate le lettere estreme di lui – a Sommacampagna il tratto corre assai breve, e venne compreso nel violento attacco simultaneo col quale gli austriaci, nella notte dal 22 al 23 luglio, avevano iniziato la loro formidabile offensiva, culminata, due giorni dopo, con la vittoria di Custoza. A Sommacampagna, i nostri, combattendo contro forze nemiche quattro volte più numerose, avevano a lungo, con valore disperato, difesa la loro posizione, non ritirandosene che all’ultimo, lentamente e in buon ordine. Il giorno dopo, da assaliti fattisi assalitori, erano tornati strenuamente alla contesa, riconquistando sul nemico le alture da Custoza a Sommacampagna e mettendo, con la bella vittoria espugnata a viva forza, in grave allarme il maresciallo austriaco obbligato a correre frettolosamente ai ripari.

In uno di questi due combattimenti, nei quali, da parte dei nostri, fu pari il valore, la gloria, se non la fortuna, morì Giulio nel fervore dell’eroica pugna. È tradizione religiosamente conservata e fedelmente ripetuta nella famiglia nostra che cadesse colpito da una palla di cannone, che gli portò via di netto la testa. Del caduto, del dove e come alla cara salma valorosa venisse data sepoltura, delle cose appartenute al defunto, nessuna reliquia pervenne alla famiglia e nessun’altra notizia fuorché quella della morte gloriosa sul nominato campo di battaglia.

Di lui pertanto, il cui povero corpo mutilato giace sepolto da settantatre anni, senza un nome e senza un ricordo, in terra lontana dalla sua natìa, confuso in una fossa comune, coi tanti compagni di morte, altra reliquia e altra memoria non rimane fuorché le lettere che formano l’oggetto del presente scritto. Da esse parla superstite, quasi da tomba, la voce semplice e schietta del giovane generoso; in esse rivive la bella e nobile figura di lui che, da lontano, nel tumulto tempestoso della guerra e del campo, torna, col pensiero assiduo e mesto, alla famiglia lasciata, trova per lei accenti di tenerezza profonda, di affetto gentile e delicato; ma, pur con la cara voce degli affetti domestici, col dolce e forte richiamo della vita, ricca di speranze, non cessa un istante dal sentire, più potente, più irresistibile che mai, nel fervido e meditato entusiasmo che non conobbe tramonto né pentimento, la voce e il richiamo d’Italia. Di queste lettere preziose m’è parso opportuno e meritevole dar contezza in uno scritto pubblico, che d’un caduto nella prima guerra dell’indipendenza italiana ricordasse la memoria e il sacrificio, appunto in questo tempo che dell’ultima guerra vittoriosa serba l’eco altera e dolente, quando tuttora vivi e cocenti permangono i lutti e i dolori infiniti, donde uscì la gran vittoria, e di cui quei lontani furono la primizia e l’ostia di propiziazione.

Allo scrivente poi in particolare fu compito doveroso e caro questo tributo di memoria devota e affettuosa, dove all’immagine lontana e al rimpianto altero dello zio veniva ad associarsi, per naturale richiamo d’analogia, nella comunanza del destino tragico e glorioso, l’immagine presente e il rimpianto acerbo, non senza dolce fierezza, del figliuolo recentemente perduto.

Perché tu pure, mio figliuolo, nel fiore degli anni e delle speranze, eri destinato a cadere, settantanni dopo, in guerra combattuta contro lo stesso implacabile nemico della gente italica, per la stessa santissima causa di affrancarla dal secolare dominio straniero. Il sacrificio della giovine vita fiorente, congiunto al sacrificio di un’altra vita, del pari giovine e fiorente, offerta dal tuo prozio sconosciuto, finisce di pagare, con usura generosa, il debito sacro di gratitudine contratto dalla famiglia nostra per l’ospitalità aperta e liberale accordata al capostipite intrese di lei, venuto, al principio del secolo scorso, dalla Svizzera in Italia, in cerca di lavoro e di fortuna. Piaccia a Dio che un tale sacrificio, in unione all’olocausto di tante altre vite, all’offerta di tanti altri dolori ineffabili, non sia stato indarno per l’avvenire avventurato e per le sorti gloriose d’Italia nostra!

 

Carlo Müller, Un volontario Intrese (Giulio Müller) caduto nella prima guerra per l’indipendenza italiana,

Tipo-litografia Almasio, Intra 1922.

 

(1) Il fedele commentatore delle presenti lettere si è fatto debito gradito e scrupoloso di riportarne ai lettori, nella forma originale, quanta più parte gli parve consentita dal procedimento della narrazione, avendo cura di citare, ogni qualvolta gli venne dato, le parole stesse di Giulio, distinte tra virgolette.

(2) «L’espace compris entre le lac de Garde, le Mincio, le Pô et l’Adige, est défendu par les quatres forteresses de Peschiera, de Mantue, de Legnago et de Vérone, formant une sorte de quadrilatère, qui peut être justement considéré la position la plus forte, comme celle qui dômine tous les champs de bataille de la haute Italie» - (GirolamoUlloa Cala, Guerre de l’Indépendance Italienne en 1848 et en 1849. Hachette, Paris 1859).

All’intento di snidare e attirar in campo aperto il nemico, che, insospettito e sconcertato dalle mosse dell’esercito piemontese e dalla mal dissimulata ostilità delle popolazioni italiane, stava prudentemente sulla difensiva nel campo trincerato dal quadrilatero, le truppe di Carlo Alberto, con forze divise e disperse, avevano dato contemporaneamente l’assalto a ben tre delle fortezze che vi stavano a presidio e baluardo; con quale esito sfortunato agli assalitori, ce lo riferisce, nel caso particolare di Verona, anche il nostro volontario, che vi prese parte combattendo, e per tutti e tre i fatti d’arme la storia di quella guerra infelice; guerra compromessa più volte e perduta da ultimo, non già per difetto di valore e di ardimento nei soldati, ma per inconcepibile insipienza e irresolutezza dei capi.

(3) Come si rivela dall’indirizzo dato da Giulio nella sua lettera del 7 maggio, il nostro volontario era «artigliere della 2.a Posizione nel II Corpo d’Armata», che stava allora di stanza a Bussolengo presso Villafranca. Il II Corpo d’Armata, forte di 16747 uomini e di 32 cannoni, era comandato dal luogotenente generale De Sonnaz: il II di Posizione dal maggiore Filippa.

(4) Tra le lettere di Giulio m’è parso opportuno di far posto, per eccezione, al sunto di questa non sua, che tratta e s’occupa di lui, facendosi tramite premuroso di notizie, in un periodo di corrispondenza interrotta e difficile, tra il combattente lontano, più intento a combattere che a scrivere, e la famiglia inquieta del silenzio prolungato.

(5) Capitolò infatti due giorni dopo, il 30 maggio.

(6) Carlo Alberto, nel dar ordine al generale Bava di riunire tutte le truppe che si trovavano a Villafranca, Sommacampagna, Sona e Custoza, marciando con esse al soccorso di Goito, minacciato da Radetzky, aveva lasciato il II Corpo d’Armata in osservazione davanti a Verona e Peschiera.

(7) Dopo la sconfitta toccatagli a Goito, Radetzky, venuto a notizia della resa di Peschiera e dell’arrivo di rinforzi piemontesi, si decise, nella notte del 3, a battere in ritirata con l’esercito austriaco, ripiegandosi su Mantova dove entrò indisturbato il giorno seguente.

(8) Carlo Alberto, informato la sera del 13 giugno che Vicenza aveva dovuto capitolare al nemico, e che Radetzky faceva ritorno a Verona, conducendo seco 8 mila uomini a marcie forzate, aveva dato ordine al suo esercito di retrocedere su Villafranca.

(9) Generose, ma non di rado imprudenti, e talvolta fatali impazienze. Perché una delle più notevoli cause estranee alla condotta strategica della guerra, le quali, più d’una volta, con risultato infelice, forzarono a Carlo Alberto la mano, facendogli abbandonare o precipitare una risoluzione, fu appunto, come osserva il citato storico assennato e competente di quella campagna, che «malhereusement, Charles-Albert dut céder à l’entrainement de l’armée, qui voulait agir, et aux exigences des populations qui se plaignaient de voir la guerre traîner en longeur, quoiqu’elles n’y prissent pas une part très-active». (Girolamo Ulloa Cala, Op. cit. vol. I, p. 276).

(10) Le sorti della campagna dovevano, invece, esser decise, poco meno d’un mese dopo, a Custoza, e non in favor nostro, ma del nemico, il quale per molti anni ancora, doveva a quelle nobili provincie far sentire il giogo intollerabile «della così lunga schiavitù».

(11) Che non al tutto infondate fossero le accuse di fatale irresolutezza nella condotta della guerra, che si mossero, prima e poi, da parecchi, anche autorevoli e spassionati, al capo supremo dell’esercito piemontese, viene riconosciuto dallo stesso storico più volte citato, il quale benevolo, a Carlo Alberto, si mostra assai prudente e guardingo nell’ammettere i giudizi a lui avversi. «Le roi, dès le commencement de la campagne, montra autant de courage dans le combats que d’indècision et de faiblesse dans les conseils; et nous verrons qu’il en fut de même aussi longtemps que dura cette guerre. D’où l’on peut conclure qu’il se défiait de ses talents militaires beaucoup plus que de sa bravoure personelle et du courage de ses soldats» (Girolamo Ulloa CalaOp. cit., vol. I, p. 128).

(12) Nelle due giornate del 24 e del 25, si calcola che 20 mila piemontesi sostenessero valorosamente la lotta contro 54 mila austriaci (Girolamo Ulloa Cala, Op. cit., vol. I, p. 303).

(13) Girolamo Ulloa Cala, Op. cit., vol. I, p. 313.

(14) Un più insigne ricordo consacrò, in passato, Intra riconoscente alla memoria dei suoi figli morti per la patria, col monumento che sorge in piazza Mazzini, comunemente conosciuto, tra noi Intresi, sotto la denominazione popolare di «Bella Italia», per la bella statua del Bergonzoli, dalle forme classiche e gentili, che, seduta in atteggiamento vigile e fiero, colla mano sull’elsa della spada, guarda dolcemente altera dall’alto del monumento, dedicato all’intrese Francesco Simonetta, il prode compagno d’armi e amico di Garibaldi, e agli altri Intresi valorosi, il cui nome sta scolpito sulle lapidi laterali.

Città di Verbania. Il Risorgimento su Lago Maggiore - Le lettere dal fronte di Giulio Müller
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