Documenti. Felice Cavallotti a Ghevio

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«Rammento come fosse ieri. Eravamo nell’agosto del 1897 a Ghevio,nella rustica sala della prevostura, all’ombra dell’ardito campanile acuto, che d’in sulla vetta del colle aprico, dalle secolari bifore centenate, guarda, accigliato, il piano sottostante, dove la strada, discesa dalle alture di Invorio, coronate dalla torre merlata dei Visconti, s’avanza quasi piana, attraversando l’abitato di Ghevio, verso Pisano, salendo poi, con dolce acclivio, lungo la costa vignata di Corciago, di Nebbiuno, fino a raggiungere l’altro castello viscontesco di Massino.
Si stava raccolti e, a dire la verità, anche un po’ pigiati, in una trentina di commensali, la più parte preti, venuti dalle cure circonvicine e dal seminario di Arona, con alcuni laici - pezzi grossi del paese e amici - intercalati qua e là, e quasi smarriti, fra le tonache nere. Eravamo convitati a banchetto solenne, per festeggiare il giubileo sacerdotale del prevosto don Carlo Bellini, parroco del luogo da anni, alta e massiccia figura, ora scomparsa, di burbero benefico, dalla voce stentorea, dalla bella aureola di capelli candidissimi, dalle folte sopracciglia ancora nere, che ombreggiavano due occhi truci ma buoni, dal fare ruvido, talvolta strano, ma schietto e bonario, dal cuore largo, caritatevole, ospitale.
Il gran pranzo, incominciato da parecchio, era nel pieno fervore delle portate enormi e dell’allegria rumorosa. Quando, in sulla soglia, fra l’andirivieni affaccendato degli agresti camerieri improvvisati e dei piatti, ecco apparire e, dopo un momento di naturale esitazione, nell’improvviso ammutolire stupito di quel brusio di voci, tra il bisbigliare discreto di un nome confidato all’orecchio vicino, sotto il fuoco di fila di tanti occhi reverendi, rivolti al sopraggiunto con aria d’interrogazione diffidente e quasi ostile, farsi avanti una nota figura, piccolotta, tarchiata, un po’ tozza, ma pur disinvolta e marziale, con un pizzico di spavalderia: Felice Cavallotti. Gli veniva dietro il fedelissimo Bocelli, basso e tondo, allora suo segretario e sua ombra inseparabile, ora morto anche lui, d’un qualche mese, dopo aver custodito e difeso, da buon cane devoto, il pensiero e la volontà del defunto amico e signore.
Cavallotti appariva tutto accesso in viso e scalmanato (figurarsi poi il compagno!) per aver fatto la salita fino lassù di furia, con quel po’ di canicola, nel buono dell’ora meridiana. Ma nonostante il disagio di quell’arrampicata, nonostante gli impegni gravi, che fino all’ultima ora avevan tentato di rattenerlo altrove, non aveva voluto mancar a quella festa di famiglia, desideroso di recare, in persona, al buon vecchio, di cui si celebravano le nozze d’oro, l’omaggio e l’augurio amico di chi, fin da adolescente, aveva imparato a conoscerlo e volergli bene.
Mosse difilato alla volta del venerando anfitrione che, assiso al posto d’onore, troneggiava modesto al mezzo della tavola a ferro di cavallo. Mentre con lieta cordialità andava facendo i suoi convenevoli, tese la mano per stringere, al disopra della gran tavola imbandita, la mano del festeggiato; ma oh sì! la tavola era troppo larga e ingombra: le due mani, per quanto armeggiassero, allungandosi vogliose l’una incontro all’altra, non arrivavano a toccarsi. Che fare? Come venire a capo di un’impresa tanto disperata? Ci pensò, nella sua semplicità ingegnosa, l’onesto prevosto, impugnando e stendendo, framezzo alle bottiglie pericolanti, come un ponte di comunicazione tra le due sponde lontane, il fido bastone, dal quale il buon vecchio non si separava mai. Cavallotti, ridendo della trovata, strinse, all’altro capo, il pacifico ramo d’ulivo, scotendolo vigorosamente: così la stretta cordiale di mano fu data e ricambiata fra i due vecchi amici.
Condotta felicemente in porto la cerimonia augurale, il nuovo arrivato andò a sedersi, col compagno modestamente verso un estremo della tavola, dove a stento si era fatto ai due ritardatarii un posticino, e cominciò ad attaccare con alacrità giovanile, di buona lena: l’ora protratta e il moto gagliardo gli avevano stuzzicato l’appetito e, più, la sete.
In sul finire del pranzo omerico, innaffiato da copiose libagioni, all’ora espansiva dei brindisi e della fratellanza universale, che è? che non è? ecco, di mezzo alla brigata allegra, levarsi una voce, seguita tosto e sostenuta da un coro unanime, incalzante, insistente: Parli Cavallotti, parli Cavallotti! E Cavallotti, dopo aver badato a schermirsi per un buon poco, vedendo vano ogni tentativo di resistenza a quel plebiscito prepotente, cedette alla fine, come tant’altre volte avrà ceduto nei comizi popolari, e parlò.
Parlò da pari suo. Io non so se il tribuno politico e popolare possedesse vere e grandi qualità oratorie: certo, a lui, oltre il sussidio di larga e conveniente coltura letteraria, non dovevano far difetto vivacità di sentire, fervidezza e vigore di fantasia, irruenza garibaldina di parola, calda, colorita, impetuosa, spesso audace, non di rado feroce, che andava diritto e colpiva giusto dove mirasse, lasciando il segno. Fu la sola volta che io ebbi la fortuna di udire Felice Cavallotti parlare in pubblico, improvvisando. E mi parve quella circostanza, che un difetto o una difficoltà di pronuncia, ignoro se abituale, contrastasse all’oratore il possesso di una parola fluida e spiccata; mi parve che questa, nella foga dell’improvvisazione, venisse alquanto incerta, stentata, restia, mal secondando la piena e l’incalzare tumultuoso del pensiero e del sentimento. E io serbo negli occhi l’immagine di quel volto acceso, di quel collo inturgidito, nello sforzo impaziente, risento nell’orecchio il mugolìo, dirò meglio, il ruggito, rauco, contro la parola indugiante e ribelle.
Ma spinte o sponte, prima o poi, la parola veniva; e venne efficace, elevata, arguta, calda di affetto. Così, vorrei essere in grado di rammentare e ripetere qui, parola per parola, come si meriterebbe, il discorso magistrale, detto in circostanze tanto singolari, su argomento tanto insolito, davanti a uditorio tanto diverso da quello della Camera e della tribuna popolare. Rammento come la bizzarria birichina e burlona del caso non mancasse di affacciarsi alla mente dello stesso oratore, provocandone la schietta vena umoristica, quando egli esordì col domandarsi, sorridendo maliziosamente, con che occhiacci stupiti e scandolezzati qualche collega della Camera e fuori avrebbe mirato lui, Cavallotti, in casa di preti, venutoci apposta per fare festa e onoranza a un prete, mangiare fraternamente a una tavola con preti e tenervi il suo bravo discorso. Ma all’infuori della cerchia piccina di certe ingenue meraviglie, di certa ombrosità puritana, di certi pregiudizi arcigni, al di là d’ogni divisione, d’ogni barriera di parte, l’uomo di mente diritta e serena, di cuore largo, sapeva scorgere e vagheggiare un terreno di neutralità, di tregua, se non di pace, dove a un galantuomo fosse dato d’incontrarsi con un altro galantuomo e stringergli la mano, senza diffidenze e senza riserve, senza correre a domandargli il passaporto o il colore, se rosso o nero, della divisa. Sapeva scorgere e vagheggiare, al disopra delle fosche e tempestose ire partigiane, una regione calma e serena, dove fosse dato di sollevarsi e trovar rifugio almeno per qualche breve ora; aprire il cuore agli affetti miti e umani; rivivere i ricordi della prima giovinezza, alla quale era familiare e cara l’immagine di una casa ospitale e fidata, quella della prevostura; salutare con riverente affetto la sera tranquilla dell’uomo antico e giusto, dopo una lunga giornata modestamente ma utilmente operosa.
Questo, a un dipresso, il senso di quel discorso singolare, che a non pochi degli intenti ascoltatori valse a rivelare un lato, sconosciuto o disconosciuto, dell’animo buono, retto e generoso di Cavallotti.
Non mi sto a dire se il discorso incontrasse, facesse furore: pochi discorsi, ritengo, dell’oratore radicale ebbero un’accoglienza più festosa, più unanime, più trionfale; fu un subisso di applausi da far crollare la sala, una vera ovazione, da parte anche si intende, di quei reverendi, i quali, con crescente meraviglia, mista chi sa? a un tantino di rimorso, erano stati a sentire e a gustare le belle e ispirate parole in onore del loro venerando confratello. Era dunque costui il famoso spadaccino spregiudicato, il feroce mangiapreti, spauracchio delle anime timorate? Anche questa volta, il diavolo non era poi, per verità, così brutto come si era badato a dipingerlo!
Finito il discorso, portati alla prosperità del festeggiato i brindisi augurali, e bevuto anche il caffè, la brigata, dopo la lunga e laboriosa seduta, si levò da tavola, si sciolse; e mentre il buon nerbo dei preti si avviava alla chiesa, dove da qualche tempo li aspettavano le funzioni del vespro, il resto della compagnia, si riversò all’aperto e si sparse nell’attiguo piazzaletto erboso, in crocchi rubicondi e animati. Io stavo col signor Carlo Cavallotti, cugino del deputato, e con una signora che, sopraggiunta in qual mentre, si era accompagnata a noi. Per compiacere al desiderio di lei, che volle conoscere da vicino l’eroe, al quale una fama avventurosa e sbarazzina, più che la letteraria o la politica, e la leggenda dei tanti duelli cingevano un’aureola di curiosità e di ammirazione femminili, il signor Carlo chiamò il cugino, che finiva allora di congedarsi dal suo ospite. Venne; e inteso che si era di Intra, animatosi in viso, osservò: Ho dei buoni amici ad Intra, e fece qualche nome.
Qui venne abilmente in campo la domanda che stava a cuore alla signora.
Dimmi un po’, Felice, domandò il cugino a bruciapelo: quanti sono i duelli?
Trentadue rispose l’interrogato, con pronta semplicità, dalla quale mi parve che facesse capolino una punta d’ingenua compiacenza.
Furono queste, per noi, si può dire, le ultime parole di lui; dopo qualche momento, prese commiato anche dal nostro gruppo e si avviò, seguito alle calcagna dal fido Acate, con passo svelto, rapido e sicuro, giù per la discesa acciottolata, che, di fianco alla prevostura, entro un valloncello, si precipita a rompicollo, in tre o quattro salti a zig-zag, giù fino al piano di Ghevio.
Stetti qualche istante, quasi mi occupasse d’improvviso il presagio oscuro di un’ultima visione, a seguire con l’occhio la mossa spigliata, le larghe spalle quadrate, il cappello a cencio, piantato alla sgherra; finché la figura ardita, affondandosi nella discesa, scomparve.
Pochi mesi dopo, i giornali di Roma, agitati e commossi, recavano la funesta notizia della tragica fine di lui che, a villa Cellere, in duello, tradito dall’abituale irruenza nell’attacco e dalla grave miopìa, era andato a infilzarsi, in bocca, sulla punta della spada avversaria. Era il suo trentatreesimo duello e gli era stato fatale!
E poiché sono in tema di reminiscenze cavallottiane, mi si consenta, in ricordo di chi, dopo morto, essendo più vivo che mai nella memoria de’ suoi connazionali, acquisita curiosità e pregio ad ogni notizia, pur anche tenue, che lo riguarda, mi si consenta, dico, di aggiungere qualche particolare men noto, intorno al tempo che Cavallotti passò a Ghevio e intorno ai parenti che vi ebbe. Attingerò alla mia breve memoria di ragazzo e a quella, più estesa e più ricca, di mia madre che, solendo, a quel tempo, dimorare per qualche mese dell’anno nel vicino paese di Pisano ebbe opportunità di stringere con alcune signore della famiglia di lui consuetudine e dimestichezza intima e cordiale.
E prima, fra tutte, per freschezza e genialità d’immagine, mi torna dinanzi alla memoria la sorella del poeta, Adelina, (la diva bionda, vestita di cielo) figura alta e gentile, con un viso espressivo e piacente, un paio di grand’occhi chiari ma pieni di vita e di fuoco, indole vivacissima ma buona ed affettuosa, mente eletta e colta, carattere aperto e schietto, ignaro di certe timidezze e certi riserbi di fanciulla.
Era molto cara al fratello, che in lei trovava l’ammiratrice devota del suo bell’ingegno e delle sue gesta spadaccine, la confidente, che sapeva intendere gli ideali, i sogni, le ambizioni di quell’ardente anima irrequieta, e indulgere a qualche scappatella del fortunato poeta. Cresciuta a Ghevio, nella custodia amorevole e larga dei buoni zii Fontana, finì, non più giovanissima, coll’andar sposa al cugino Carlo; morì, non compiuto l’anno, di parto gemino, nella lontana Cesena; ma volle essere portata al suo Ghevio e riposare nella pace soleggiata dell’umile cimitero campestre, cantato poi, con accorato rimpianto e mestizia soave, dal memore poeta, con versi elegiaci fra i più sinceri e i più ispirati.
Rivedo la casa Fontana, come appariva a quel tempo, prima delle gravi alterazioni, subite poi, che le hanno mutato faccia, e come si intravedeva dalla strada biancheggiare modesta e ridente, dietro a un giardino ombreggiato, lunga e bassa, a un sol piano sopra al terreno.
Casa amica e ospitale, dove esercitava lo scettro amabile e attivo una sorella del padre di Felice, la cara signora Adelaide, il buon genio e la provvidenza familiare, perpetuamente vigile e occupata degli altri, briosa e piacevole in salotto, affaccendata in cucina a saziare l’appetito, eccitato dalla sottile aria montanina, nelle frequenti brigate, spesso numerose, sempre affamate, allegre e chiassose, degli amici e dei satelliti che facevan corona al vivido astro sorgente. Con lei, rimasta poi vedova dell’ingegnere Fontana, erano venute a stare la sorella (moglie, e presto vedova, del figlio di lui, natogli da nozze precedenti) e la madre, nonna paterna del poeta, una buona e mite vecchietta, dal viso dolce e giovanilmente fresco, dalle belle manine signorili, che aveva perduto la vista, ma conservava l’umore ilare e sereno, insieme alla bella parlata pittoresca del Veneto nativo, e amava, non di rado, cantarellare ancora, con i resti e i ricordi d’una voce stata bella in gioventù.
In questa casa gioconda e d’ordinario tranquilla di Ghevio, nella pace amica e ispiratrice dei campi, Cavallotti compose una buona parte, e forse la migliore, dei drammi e delle poesie che diedero bella fama alla sua giovinezza. E la sorella compiacevasi a rievocare, parlando con altri, il ricordo di quei giorni memorandi e tumultuosi, quando Felice, invasato dal furore sacro, correva a rinchiudersi a chiave in una bigattiera della casa, con una catinella, dove tuffare di tanto in tanto la testa in bollore, e una bottiglia d’acqua per dissetarsi, a comporre per ore e ore di fila, passeggiando in su e in giù a passi concitati, declamando ad alta voce, riempiendo i graticci, destinati ai bachi, di libri e di fogli scritti con furia febbrile, ricusando, inesorabilmente sordo alle istanze dei famigliari, di veder chicchessia, di assaggiar cibo. Finché, verso sera, lo si vedeva uscire dalla sua prigione, affranto, affamato, ma raggiante, per abbandonarsi, con infantile docilità contenta, alle cure provvide e pietose della buona zia Adelaide che, sgridando e dichiarandolo su tutti i toni un bel matto, si dava dattorno per isfamarlo, raccomandandogli, con qualche buon piatto della sua cucina sapiente e ingegnosa, lo stomaco maltrattato dai furori dell’estro divino e delle Muse.
O ardenti e beati entusiasmi della giovinezza e dell’arte! Quante volte verso la vostra balda e radiosa imagine, nell’ora stanca e buia dello scoramento, dello sconforto e del disinganno, avrà anelato l’anima del poeta; combattuta dagli amori e dagli odii di parte; contristata dalla nebbia della morta gora politica; desiosa di più spirabil aere, di luce, di conforto, di pace! Ma altri tempi erano succeduti a quella gioconda e sconfinata libertà di volo e di cielo, altre cure, altre necessità. L’aquila era impastoiata altrove. Del resto, il tiepido e garrulo nido di Ghevio non era più quello dei giorni lieti: a poco a poco, s’era fatto silenzioso e freddo; l’asilo fidato aveva perduto i suoi buoni genii tutelari, a uno a uno, e il suo dolce richiamo: troppe volte, da quel tempo felice, la morte vi era entrata, troppe volte ne erano uscite persone care, per non più ritornarci, lasciando dietro a sé un vuoto irreparabile, le ceneri di memorie dolorose.
Cadde dal cuore a Cavallotti il suo Ghevio, dove tanta vita, fervida di giovinezza e di pensiero, il sognatore poeta aveva vissuta? Dimenticò l’uomo politico, negli anni maturi e provati, il proposito a lungo vagheggiato e caro di tornarvi, morto, a riposare, dopo una vita agitata, le stanche ossa, nel quieto camposanto del villaggio, accanto alla sorella diletta? Più che la dolcezza sacra delle memorie, poté da ultimo sull’animo del superstite il sorriso incantevole del lieto colle ameno di Dagnente? Chi è in grado d’indagare l’intimo secreto di un cuore? Chi ha l’ardire, o l’autorità, di giudicarlo?
Ma forse, più di Cavallotti, più del suo cuore, della sua volontà, poterono il destino e il consenso popolare, i quali meditavano di erigere, alto e cospicuo nell’ampiezza luminosa del cielo, sul colle eminente, al cospetto del lago aperto e del frequente piano lombardo, un epico monumento che custodisse, con la salma dell’eroe, e proclamasse, con lunga eco all’intorno, la memoria ammonitrice di lui, che, per gli altri sdegni e gli impeti generosi, se non sempre giusti e temperati, del gran cuore, meritò d’essere chiamato il cavaliere della democrazia italiana».

 

Carlo Müller, Felice Cavallotti a Ghevio, in «Verbania» marzo 1910

Città di Verbania. Il Risorgimento su Lago Maggiore - Documenti. Felice Cavallotti a Ghevio
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